intervista

Gabriella Viglione, Procuratrice capo di Ivrea: «Reati di genere e fondi Pnrr i punti focali sui cui vigilare»

«Il Canavese ha zone geografiche più sensibili come Chivasso, Settimo, Leinì e Venaria».

Gabriella Viglione, Procuratrice capo di Ivrea: «Reati di genere e fondi Pnrr i punti focali sui cui vigilare»
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L'intervista a Gabriella Viglione, Procuratrice capo di Ivrea: «Reati di genere e fondi Pnrr i punti focali sui cui vigilare»

L'intervista a Gabriella Viglione, Procuratrice capo di Ivrea

La dottoressa Gabriella Viglione è la Procuratrice capo della Repubblica di Ivrea. L’assemblea plenaria (plenum) del Consiglio superiore della magistratura (Csm) ha valutato più idoneo il suo curriculum, per attitudini e merito, rispetto a quello di altri concorrenti. È in magistratura dal 1986 e finora ha operato nel ruolo di requirente (Pubblico ministero): per 26 anni alla Procura di Torino – in molti gruppi specialistici tra cui quello della Direzione distrettuale antimafia – e poi per 7 anni a Cuneo in qualità di Procuratore aggiunto. A Ivrea aveva già reso breve servizio circa 10 anni fa come Procuratore facente funzione su indicazione dell’allora Procuratore generale della Repubblica del Piemonte, dottor Maddalena. Da febbraio 2022 dirige la seconda Procura della Repubblica del Piemonte per numero di abitanti, in una situazione di consolidata carenza di risorse umane, tenuto conto del non adeguamento delle piante organiche – anche dopo la riforma della geografia giudiziaria del 2013 – con scoperture che, a Ivrea, raggiungono quasi il 40%.

Quali sono le attività della Procura della Repubblica?
«La Procura è il pronto soccorso della giustizia; è il primo organo giurisdizionale che si incontra quando succede un fatto di rilevanza penale come omicidio, spaccio o rapina. In parole più semplici è l’interlocutore giudiziario. L’azione di soccorso è eseguita in primis dalla Polizia giudiziaria che, come previsto dalla legge, senza l’intervento della Procura non può compiere validi atti interdittivi. La Procura, tra le molteplici competenze, dirige la Polizia giudiziaria dall’inizio alla fine delle indagini. Al loro termine è il Pm (Pubblico ministero) che valuta se si possa procedere con il giudizio. Il verbo procedere significa che se la Procura ritiene che le prove raccolte durante la fase degli accertamenti e delle indagini possano avere solidità nel corso del processo, esercita l’azione penale (principio fissato dalla nostra Costituzione). In caso contrario il Pm chiede al giudice l’archiviazione. Impropriamente si dice che il Pm svolga il ruolo dell’accusa. Non è così. La Procura deve valutare tutti gli elementi in capo all’indagato, anche quelli a suo favore. Anche i termini tecnici che si leggono hanno significati diversi. Ad esempio è indagato colui verso il quale si stanno compiendo indagini, mentre è imputato colui che, al termine delle indagini, è stato rinviato a giudizio su proposta del Pm e su avallo del Gip (giudice per le indagini preliminari)».

La Procura con la sua azione interviene anche in ambiti non penali?
«Sì certamente. Ad esempio nel settore civile per la tutela degli interessi delle persone incapaci con l’attivazione della tutela giudiziale o di amministrazione di sostegno, ma anche per l’interesse e la tutela dei minori in caso di contenzioso tra i genitori (es. separazioni e divorzi). Il Pm può essere chiamato a esprimere il proprio parere e a operare un controllo di legalità su numerosi atti estranei all’attività processuale penale, come ad esempio in materia di stato civile su atti di particolare importanza o in materia fallimentare» .

La Procura può intraprendere un’indagine d’iniziati - va oppure è necessario ricevere sempre una segnalazione perché si possa attivare?
«Certamente sì. Le indagini possono partire da una notizia di attualità di cui siamo a conoscenza oppure ad esempio da un fascicolo già istruito. Nel nostro ordinamento costituzionale perseguire i reati è obbligatorio e lo ricorda anche il codice di procedura penale».

Un problema che le sta particolarmente a cuore e che monitora nelle priorità?
«Sicuramente il codice rosso, la violenza di genere e sui minori, la cui percentuale nel corso degli anni è aumentata in maniera esponenziale. Alla base c’è una radice di tipo culturale, di violenza, che nasce da tempi lontani. Con il tempo la donna, più emancipata ed economicamente indipendente, non è più disposta a tollerare minacce, maltrattamenti e stalking e, correttamente, sporge denunce per la tutela di sé stessa e dei figli. Il rovescio della medaglia in questi casi è la difficoltà di valutare e di calibrare l’azione successiva, svolta dalla Procura, per emettere provvedimenti interdittivi perché sulla questione non aiuta nessuna teoria criminologica: non si può prevedere l’eventuale escalation di gravità sia perché la violenza familiare e di genere sono fenomeni che prescindono dalle condizioni sociali ed economiche, sia perché purtroppo capita che la persona offesa non resti lineare nel tempo e, per molte ragioni, alterni denunce ritirate e poi ripresentate. Un altro problema è sicuramente la sicurezza sul lavoro. Si contano infortuni anche gravi e il fenomeno tende ad aumentare per la parcellizzazione del lavoro precario, per il lavoro somministrato dalle agenzie per brevi periodi, senza una minima formazione di prevenzione e per la scarsità di vigilanza a causa delle esigue risorse economiche dedicate (pochi ispettori del lavoro e del servizio di prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro) e gli interventi, purtroppo, spesso avvengono soltanto a incidente avvenuto. Un altro punto focale – tra i tanti che meritano attenzione – è il discorso delle ingenti risorse economiche che derivano come conseguenza indiretta della pandemia Covid-19 e dai fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), tema su cui dovremo dedicare molta attenzione per verificare che queste risorse economiche non vengano sfruttate per fini illeciti».

Un ricordo eclatante di un caso giudiziario che ha istruito nella sua esperienza e uno che ha avuto più risalto a livello mediatico?
«Di criminalità organizzata il maxi processo Cartagine. Nel 1994 un ritrovamento a Borgaro Torinese di un tir con oltre 5 mila chili di cocaina e con successive indagini che hanno accertato l’esistenza di bande affiliate alla criminalità organizzata della n’drangheta e che è terminato con molte condanne definitive all’ergastolo o con pene molto gravi. Ma anche ricordo di un lungo lavoro di indagini nei confronti di un insospettabile assassino seriale che ha permesso di contestare 11 omicidi (alcuni dei quali inizialmente rubricati come morti naturali) a un soggetto della Valsusa, condannato poi all’ergastolo. A livello mediatico ricordo il processo nei confronti dei dirigenti dell’azienda di pneumatici Pirelli, di Farmitalia e di altre aziende per le morti e lesioni dei dipendenti per colposa esposizione ad amianto e ad altre sostanze nocive».

La criminalità nel territorio Canavese come si colloca rispetto alle realtà confinanti?
«Particolare attenzione è rivolta alla sicurezza sul lavoro, ai problemi ambientali, agli imprenditori in sofferenza e alle conseguenze della perdita del lavo ro. Riguardo la criminalità organizzata tutti i territori italiani sono interconnessi; anche in situazioni di superficiale calma può essere presente una certa contiguità con la criminalità organizzata: un episodio in apparenza isolato di furto predatorio o ai danni degli anziani deve essere valutato in un contesto ad ampio spettro. Anche il Canavese ha zone geografiche più sensibili come Chivasso, Settimo, Leinì e Venaria – per citare solo degli esempi – su cui bisogna tenere accesi i riflettori».

La recente riforma in merito alle dichiarazioni delle autorità pubbliche in materia di comunicazione istituzionale sui procedimenti penali con gli organi di stampa ritiene sia la massima espressione della volontà dei nostri Padri costituenti?
«Sulla questione ho anche recentemente emanato una circolare in proposito, rivolta a tutti gli uffici territoriali di Polizia giudiziaria. L’informazione della pubblica opinione in una società aperta è il primario interesse della collettività e questo dovere, quando si parla di procedimenti penali, incombe sul Procuratore della Repubblica; sarebbe paradossale che sia l’unico a non dovere informare. L’informazione deve essere corretta, imparziale e rispettosa della dignità della persona, ma lo stesso criterio dovrebbe essere applicato anche ai privati (avvocati, organi di stampa) nel corso del procedimento perché la comunicazione non può essere abbandonata nella disponibilità delle parti private, cui questa legge non pone alcun obbligo, di rispetto di canoni, anche minimi, di correttezza nell’informazione. Ritengo che la modifica della precedente norma del 2006 sia discutibile e non credo che i nostri Costituenti sarebbero soddisfatti».

Per finire: nonostante i suoi molteplici impegni istituzionali come riesce a seguire le sue passioni e come recupera le energie?
«Ho una vita familiare abbastanza impegnata, mi piace leggere libri, riviste e quotidiani, fare passeggiate al mare e portare a spasso il mio cane. Sì, mi rilassa molto».

Al termine dell’intervista leggo gli atti, argomentati e comparati, del Consiglio superiore della magistratura. La dott.ssa Viglione è risultata la più idonea rispetto ad altri candidati non soltanto per le precondizioni del ruolo assegnato (indipendenza, imparzialità ed equilibrio), ma anche e soprattutto per i parametri del merito e delle attitudini; oltre all’operosità, alla preparazione giuridica, alle doti investigative e di utilizzo delle tecnologie informatiche – per citarne alcune –, emerge anche il lato caratteriale e di personalità di «non comuni capacità dialettiche, rigore e persuasività nelle argomentazioni, elevata professionalità non solo nelle discussioni di carattere giuridico, ma anche nella gestione delle fonti di prova e delle strategie processuali, oltre alla perfetta conoscenza degli atti di causa». Ma anche di «innata cortesia» forse proprio come lo spirito di discernimento che auspicava il giurista e Costituente Piero Calamandrei. Indegnamente riporto quanto Enzo Biagi diceva: «non manderò nelle vostre case acqua inquinata». Aveva rispetto per chiunque intervistava, soprattutto per il lettore e riteneva che l’obiettività del giornalista non fosse solo di amorale equidistanza, ma anche con un punto di vista sul comportamento etico.

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