Rivarolo Canavese

Martina Marchiò, infermiera rivarolese sotto le bombe di Gaza con Medici Senza Frontiere

«Gaza è un conflitto diverso da tutti quelli che ho visto»

Martina Marchiò, infermiera rivarolese sotto le bombe di Gaza con Medici Senza Frontiere
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Martina Marchiò, infermiera rivarolese sotto le bombe di Gaza con Medici Senza Frontiere.

Martina Marchiò, infermiera rivarolese  a Gaza con MSF

Boati, urla, pianti, sirene, poi polvere, sangue, rovine, disperazione… gli scenari di guerra sono tutti uguali, fatti di morte, desolazione e sconfitte. La vittoria nelle guerre non esiste ma è una lezione che l’umanità non ha ancora imparato. Ci sono però uomini e donne coraggiosi che nelle zone di conflitto combattono una loro “guerra”, una lotta a fianco della popolazione vittima degli attacchi armati e portano il loro aiuto mettendosi a disposizione dei più deboli con grande forza e senso di responsabilità. Fra loro c’è anche Martina Marchiò, infermiera rivarolese di 32 anni che da 10 collabora con Medici senza Frontiere e che ha appena concluso una missione come coordinatrice medica nella striscia di Gaza.

Quanto sei stata a Gaza?
«Sei settimane, da metà aprile fino a fine maggio».

Come si è evoluta la situazione in queste settimane?
«Quando sono arrivata l’invasione via terra di Rafah non era ancora iniziata, anche se non era una situazione tranquilla a causa di bombardamenti e ed esplosioni giorno e notte, il peggio è iniziato quando il 6 maggio è arrivato il primo ordine di evacuazione per alcuni blocchi della città di Rafah che ha segnato l’inizio dell’invasione via terra. Più di 800 mila persone si sono spostate nelle zone indicate come sicure. Poi tutto è degenerato e ora non c’è più un luogo sicuro e la popolazione è vittima di attacchi anche nelle zone designate come Safe. I civili sono schiacciati su più fronti da pesanti attacchi via terra e via cielo, sia lato Rafah che nella zona di Deir-al-Balah e nella zona nord della striscia che rimane praticamente inaccessibile. Anche la zona della spiaggia, dove le persone erano state invitate a rifugiarsi, è stata attaccata. Tantissimi anche gli attacchi nella zona centrale, soprattutto nell’area di Nuseirat come si è visto qualche settimana fa con il pesante attacco costato la vita a centinaia di persone».

⁠Cosa ti dà la forza di affrontare queste situazioni?
«È dura. Sicuramente non è facile per noi operatori umanitari. Gaza è un conflitto diverso da tutti quelli che ho visto negli ultimi otto anni. E’ difficile accettare di non sentirsi mai veramente al sicuro, è difficile non poter mai staccare il cervello perché giorno e notte si continuano a sentire i doni e le esplosioni, missili, bombardamenti… Difficile vedere queste persone che non hanno più una via di fuga e non sanno dove rifugiarsi. Una volta tornati ci si porta dietro grande dolore, senso di impotenza e di colpa per aver avuto la possibilità di tornare a casa. Non c’è una ricetta magica per affrontare queste situazioni, siamo umani quindi cerchiamo di rimanere lucidi e fare il nostro lavoro ma ci sono momenti duri».

Ci sono stati momenti in cui hai pensato di mollare tutto e scappare anche tu?
«Sì, mi è capitato di pensare “è troppo”, però poi guardavo i miei colleghi negli occhi: dopo più di otto mesi in questa situazione vedevo la loro determinazione e la loro resilienza, il loro coraggio e la loro forza e allora andavo avanti. Attraversare quel portone che divide Gaza da Israele non è stato semplice, è come lasciarsi alle spalle un mondo distopico ed entrare in un altro mondo soltanto oltrepassando una porta. Ricordo che da un lato c’era il cielo blu con i campi verdi la libertà,  dall’altro c’erano ancora doni e bombardamenti. E’ duro da accettare».

Ci si abitua mai a bombe ed esplosioni?
«Ho lavorato in zone di conflitto in tutto il mondo e non ci si abitua mai alla violenza, alle bombe e alle esplosioni».

Adesso che sei tornata a casa, come ti senti?
«Non è facile, ci sente disconnessi. Sono esausta. Ci vorrà tempo per metabolizzare tutto quello che ho vissuto e non è semplice essere qui considerata la situazione a Gaza. Il valico di Rafah è ancora chiuso e non c’è maniera per gli aiuti umanitari di entrare. Le organizzazioni umanitarie sono in difficoltà: i medicinali scarseggiano. Manca il combustibile che serve per far funzionare i generatori degli ospedali. Poi c’è tutta la questione del cibo e dell’acqua per la popolazione. E’ dura essere qui sapendo che la situazione peggiora ogni giorno».

C’è un episodio o una persona che porti a casa e custodirai nel cuore?
«La persona che più mi porto dentro è Sohaib, un mio caro collega che considero un po’ il mio fratello palestinese. E’ un grande chirurgo. E’ riuscito a far passare il confine alla moglie e alla figlia di tre anni quando ancora il valico di Rafah era aperto, ma lui ha deciso di rimanere nonostante abbia avuto la possibilità di andarsene. E’ rimasto lì, in prima linea, a combattere a fianco della sua gente, offrendo il suo supporto come medico. Un giorno, prima che la sua famiglia partisse, la casa vicino alla sua è stata colpita durante un attacco e Sahib è stato ferito da dei frammenti. Ha iniziato a sanguinare ma il suo unico pensiero era controllare che sua figlia stesse bene. Quando l’ha ritrovata, tra tutto il fumo della casa, la bambina gli ha detto: “Papà, stai sanguinando, ma i medici non sanguinano”. Nonostante tutto questo lui è rimasto, e per me è un grande esempio di coraggio e resilienza».

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