Intervista

Prandini: "Valorizziamo e tuteliamo la nostra biodiversità e un settore davvero primario"

Il presidente nazionale di Coldiretti commenta positivamente la nostra iniziativa e ricorda l’importanza dell’agricoltura

Prandini: "Valorizziamo e tuteliamo la nostra biodiversità e un settore davvero primario"
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"Giudico questa iniziativa particolarmente intelligente, soprattutto per due aspetti. Il primo è la sensibilizzazione di cittadini e consumatori sull’importanza della coltivazione, della qualità dei prodotti, dell’attenzione rispetto ai temi di carattere ambientale".

Così Ettore Prandini, presidente di Coldiretti, commenta la nostra iniziativa “Facciamo un orto molto speziale!”. Con il presidente dell’associazione che rappresenta circa 1,6 milioni di agricoltori abbiamo parlato del nostro progetto green e dello stato del settore.

"Inoltre - aggiunge l’imprenditore bresciano - regalare dei semi contribuisce alla difesa e alla valorizzazione della nostra biodiversità. Che è ciò che ci caratterizza rispetto al resto del mondo: siamo il Paese con la maggiore biodiversità a livello mondiale. E il più sostenibile dal punto di vista ambientale: basti pensare che su una media mondiale di emissioni inquinanti del comparto agricolo tra il 15 e 16%, in Europa siamo al 7% e in Italia solo al 4,5%. Un primato unico, ma continuare a investire nel fare cultura e informazione su questi temi diventa un elemento sfidante, perché questo 4,5% sia un punto di partenza per migliorarsi ulteriormente".

L'importanza dell'educazione: ripartiamo dalla scuole

Prendersi cura di una pianta, come di un ortaggio, aiuta a imparare i tempi della natura?

"Regalare dei semi – parlando di cultura – si lega al tema della stagionalità: non tutte le piante possono essere coltivate in tutte le stagioni. E’ importante perché trasmette al cittadino un elemento educativo, anche nel momento in cui fa la spesa: capire che non tutto può essere sempre disponibile e quando lo è ha un impatto forte sulle emissioni inquinanti: prodotti che vengono trasportati dall’altra parte del mondo, che hanno bisogno di imballaggi e di una cura con blocco e riattivazione della maturazione che di naturale hanno ben poco. La stagionalità diventa un elemento di attenzione all’ambiente in cui viviamo".

Sull’aspetto educativo il nostro progetto investe molto sulle scuole.

"Ritengo che le scuole siano il vero pilastro da cui ripartire. Qualcuno ci imputa di essere dei visionari perché serve del tempo, ma il problema è esattamente inverso: siamo abituati - negli ultimi 40 anni - a ragionare solo in termini di emergenza, invece per cambiare alcuni stili di vita dobbiamo agire adesso con uno sguardo di medio e lungo periodo, quindi l’investimento migliore è partire dalle scuole primarie. I bambini di oggi saranno i consumatori di domani: se spieghiamo a loro i temi della sostenibilità, della stagionalità e biodiversità, fortifichiamo la loro personalità e diventeranno meno strumentalizzabili da parte della disinformazione da parte dei social, che spingono sempre di più verso diete omologate, piene di falsità e legate a interessi commerciali".

L’educazione nelle scuole permette anche di ridurre lo spreco alimentare?

"Ancora oggi sprechiamo circa il 17% del cibo prodotto e ci viene chiesto come pensiamo di dare una risposta alle problematiche sollevate dalla crescita demografica mondiale: oggi siamo 8 miliardi di persone e fra 30 anni saremo 10, anche se è tutto da vedere se succederà. Ma comunque riteniamo che rafforzare le linee per la conservazione del cibo possa essere una modalità per aiutare le popolazioni che non hanno cibo, come nel contesto africano. Per dare una risposta significativa a chi ha bisogno non serve il cibo chimico ma il buon senso".

Ettore Prandini, presidente della Coldiretti nazionale dal 2018

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Gli alimenti prodotti in laboratorio possono essere la risposta alla carenza di cibo?

"Purtroppo la demonizzazione di alcuni comparti agricoli avviene solo per dare spazio commerciale a chi non lo avrebbe mai, come chi produce cibo chimico. Nessuno comprerebbe qualcosa fatto in laboratorio al posto di prodotti naturali. La sfida per noi è migliorare le nostre filiere produttive ma senza subire demonizzazioni, che non sono figlie della verità. Non dimentichiamo i rischi per la salute della popolazione: chi realizza cibo chimico ha anche la forza di incidere sulle autorizzazioni, ma non ci sono ad oggi studi scientifici e medici che dimostrino che cellule fatte impazzire da un bioreattore non abbiano conseguenze negative se assunte in modo continuativo dall’essere umano. Ne abbiamo discusso con associazioni di pediatri e medici di base a livello europeo e mondiale e con le università: tutti ci dicono che le nostre preoccupazioni sono fondate. Il rischio è quello di arrivare a diete omologate e standardizzate in tutto il mondo, facendo sparire il concetto di biodiversità che ci caratterizza. Se dovessimo abbandonare le nostre produzioni saremmo perdenti e diventerebbe anche un problema economico e sociale, oltre che ambientale: l’abbandono della coltivazione vorrebbe dire abbandonare la cura del suolo con tutte le conseguenze negative che ne possono derivare, a partire dai rischi idrogeologici".

Tra le emergenze c’è quella legata all’acqua, che non è stata risolta...

"L’acqua resta ancora un grande problema: in questi giorni il Po è 3 metri sotto allo zero idrometrico. Nonostante siamo in inverno la piovosità è stata limitata, per fortuna con una maggiore riserva nelle aree montane per la neve. Noi siamo in grado di trattenere solo l’11% di acqua piovana, mentre la Francia raggiunge il 30% e la Spagna il 28. Tutti i Paesi stanno comunque ragionando sulle infrastrutture, come i bacini di accumulo. Noi abbiamo portato all’attenzione della politica questa opportunità e ci auguriamo che usando i fondi di coesione e del Pnrr anche il nostro Paese si possa dotare finalmente di un sistema di accumulo in grado di mantenere una disponibilità di acqua adeguata, per garantire la qualità dei prodotti, anche in ottica di sviluppo delle aree interne. Sono sfide alla nostra portata, augurandoci che le istituzioni abbiano capito che parlare di agroalimentare non è un tema secondario".

In effetti, il settore primario non è considerato tale.

"In questi anni siamo stati abituati che il cibo c’era sempre, e se non lo producevamo lo potevamo importare. Ma con uno scontro bellico alle porte dell’Europa queste certezze vengono meno. I Paesi che hanno resistito meglio sono stati quelli che hanno tutelato le proprie filiere produttive. In Italia e in Europa, in questo, abbiamo sbagliato indirizzo, ritenendo che non fosse una filiera centrale. Insieme, tutti i comparti legati al cibo, creano un valore che ne fa il primo soggetto del Pil interno, superando i 580 miliardi di euro di produzione e occupando 4 milioni di persone".

Europa, appunto: in questo scenario quanto conta la nuova Politica agricola comunitaria?

"Credo che sulla Pac ci sia stata tanta demagogia: i partiti si lamentano delle risorse stanziate ma si dimenticano che sono legate al bilancio comunitario. Ci possiamo lamentare dell’Europa ma dobbiamo imparare a stare nel contesto istituzionale europeo, essendo sempre più presenti nelle fasi di discussione e condivisione, difendendo i nostri interessi come fanno anche gli altri Paesi".

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